Il mio amico Gualtiero – Altopalato e la gran disputa sulle orecchiette
Stagione autunnale 1980: con Gualtiero Marchesi ci incontravamo ogni settimana per trovare lo stile da adottare, il tipo di proposte, insomma la “sceneggiatura” completa di Altopalato. Già: la sceneggiatura. Perché si voleva dare al nuovo soggetto, primi nel panorama enogastronomico di allora, una caratteristica simile a un teatro, con una “compagnia stabile” per i programmi fissi e con “ospitate” di campioni provenienti dall’esterno. Peraltro, già avevamo un grande protagonista, Gualtiero appunto, che avrebbe avuto un suo spazio privilegiato e riservato.
Ci mancava tuttavia la cosa più importante: il nome; qualcuno, rifacendosi al periodo dei Futuristi, aveva suggerito di riprendere il nome “Santo Palato” ma io e Terry, mia moglie, pensando alla nostra collaborazione con Famiglia Cristiana, avevamo ritenuto poco opportuna la denominazione. Terry ebbe allora un’intuizione, suggerì “Altopalato”, immediatamente accettato. Così tutto ebbe inizio…
Al pari di una compagnia di teatro, abbozzammo le linee programmatiche in due settori:
- La sala da pranzo, con un “cartellone” dedicato alle serate di ricerca storica, quelle con i protagonisti provenienti da altre sedi e gli “speciali” di Gualtiero Marchesi.
- L’aula-cucina con il calendario dei corsi, nei diversi livelli.
Si trattava indubbiamente di una novità assoluta per Milano, ma anche per l’Italia. Milano era la piazza più adatta per nuove iniziative (lo è tuttora!) e, secondo Marchesi, qui avrebbe preso avvio un movimento di innovazione che, attraverso un palcoscenico di qualità e cultura, avrebbe consentito di far conoscere a un pubblico di appassionati, sempre più numeroso, l’evoluzione della cucina e i nuovi talenti. Progetto ambizioso indubbiamente, ma i fatti ci diedero ragione.
Così cominciarono le prove e gli aggiustamenti che, dovendo rispettare gli impegni professionali di tutti, durarono circa un anno e giungemmo alla fatidica “prova generale”, riservata al nostro gruppo, in un giorno di chiusura del ristorante di Marchesi, con un menu di ricerca storica rinascimentale piuttosto impegnativo, con piatti di tre grandi autori: Maestro Martino, il Platina e Bartolomeo Scappi, con tre “servizi di cucina” e un “servizio di credenza”.
In cucina operava, quella sera, l’équipe di Gualtiero, che andava a verificare ogni piatto prima del servizio e che poi sedeva a tavola con noi per degustare e commentare. La sequenza dei vini fu organizzata dall’Enoteca Solci, in modo impeccabile. Il risultato fu di soddisfazione. Gualtiero era riuscito nella grande impresa di coniugare in modo perfetto l’atmosfera storica con l’innovazione tecnica delle preparazioni. Eravamo pronti per il debutto ufficiale che avvenne con tre serate inaugurali.
«Preparavamo una specie di cartellone: l’appuntamento era di lunedì. Io lavoravo sulla ricerca, trovavo le ricette, le facevo vedere al cuoco, quindi c’erano le prove, poi una prova generale, e infine la serata vera e propria. Si iniziava a lavorare in cucina, si accoglievano gli ospiti alle 20,30 per l’aperitivo, si spiegava cosa sarebbe successo e alle 21, come al Teatro alla Scala, le porte si chiudevano e non si poteva più entrare. Arrivavano sempre tanti giornalisti: per Il Giornale c’era Adriana Marchetta, per La Repubblica una Mariella Tanzarella che era proprio agli inizi, poi si faceva vedere spesso anche Fiammetta Fadda che al tempo lavorava a una rivista sul benessere della Weight Watchers, mentre per il Corriere della Sera c’era sempre Venanzio Postiglione. Insomma erano piccoli eventi con forte richiamo sui giornali l’indomani, quasi fosse un “ieri sera a Broadway”».
La stagione proseguì con grande successo, sia per le serate storiche, nelle quali operava il gruppo stabile di cucina, sia per quelle speciali con protagonisti arrivati dall’esterno. Dopo ogni “prima” i quotidiani milanesi ne davano notizia proprio come si trattasse di lavori teatrali. D’altra parte, il copione delle serate era davvero singolare:
- Gli ospiti (al massimo 36 con tavoli separati o 24 se con unico tavolo reale) dovevano arrivare alle ore 20,30
- Passando dalla cucina, dove operavano i cuochi, entravano in biblioteca per l’aperitivo.
- Alle 21 in punto (come alla Scala quando si apre il sipario), tutti in sala da pranzo per l’inizio dello spettacolo-pranzo.
- Prima di iniziare la cena, raccontavamo agli ospiti i criteri della ricerca storica oppure, nel caso di protagonisti esterni, li presentavamo illustrando le portate che sarebbero state servite.
- A questo punto, nel caso di serate di ricerca storica, due musici del Conservatorio suonavano pezzi in sintonia con il periodo oggetto della serata. Un altro breve spazio musicale sarebbe stato svolto al termine del servizio.
- Nella sala da pranzo (primi in assoluto a farlo) non era consentito fumare ma, tra un piatto e l’altro, per chi non ne potesse fare a meno, c’era una saletta “fumoir”.
- Molto spesso, a termine serata, quando l’équipe di cucina si presentava al giudizio del pubblico, arrivava anche Gualtiero che partecipava al dibattito finale con gli ospiti.
Il “cartellone” prevedeva alcune “serate speciali” realizzate da Marchesi su temi diversi dal suo repertorio abituale del locale di Bonvesin de la Riva. Si sarebbero dovuti svolgere in un’unica serata ma, in seguito al grande successo di pubblico, meritarono alcune repliche; ecco alcuni titoli:
- Spumante nel bicchiere: i protagonisti erano diversi tipi di spumanti italiani di grande qualità, Gualtiero sceglieva e faceva realizzare dal suo team di cucina i piatti da accostare (due repliche oltre la prima).
- Il grande bollito misto, capolavoro assoluto di Gualtiero, con cinque servizi consecutivi e suddivisi con le tipologie delle carni. Le cotture? Assolutamente perfette; tutto talmente buono che, ne sono convinto, anche i vegetariani avrebbero festeggiato un bollito così. Nella prima serata, Gualtiero entrò in sala da pranzo e spiegò in modo dettagliato le sue scelte in modo che il pubblico fosse adeguatamente preparato (4 repliche).
- Terrine, paté, galantine. Una rassegna di raffinatezze, in puro “stile marchesiano” (tre repliche).
- I mille volti della pasta: questo argomento diventò un best seller di Altopalato. Marchesi, nel suo locale, aveva bandito la pasta dal repertorio Si può immaginare la curiosità del pubblico che, solo dalle prenotazioni della “prima”, avrebbero riempito la sala per 4 o 5 volte.
«Qui, ci fu una piccola disputa fra me e Gualtiero a proposito del piatto di Orecchiette con cime di rapa, foie gras e tartufi di Norcia. Io, che avevo genitori pugliesi con il culto per le orecchiette, mi ero dato da fare per trovare una donna di quelle parti, possibilmente con piccole mani per ottenere orecchiette piccole, le migliori secondo la mia esperienza; la signora, pugliese doc, ne preparò in gran quantità ma Gualtiero mise dei paletti e disse: “Le orecchiette, in ogni piatto devono essere rigorosamente sette non unadi più”. Io feci resistenza: “Ma come, ho trovato la signora di Taranto con le mani piccole! Sette orecchiette non le vediamo nemmeno, dobbiamo assolutamente aumentarle”. Lui fu irremovibile, il 7 era il suo numero e non si doveva cambiarlo. Alla fine, trovammo la transazione su 14 orecchiette (multiplo di 7), quindi lui andò al suo ristorante e sarebbe ritornato a fine serata. Io, “barando”, chiamai il suo cuoco e gli dissi che ci eravamo accordati su 28 orecchiette (sempre multiplo di 7) e così andò. Fu un trionfo e facemmo 6 repliche. Non dissi all’epoca a Marchesi di aver modificato le sue istruzioni; lo feci solo molti anni dopo, al suo ottantesimo compleanno. Si arrabbiò un poco ma, alla fine, mi perdonò».
Mi ero fatto l’idea che a Gualtiero la pasta non piacesse, ma mi dovetti ricredere. Avevamo in comune la frequentazione dell’Oltrepo, lui a San Zenone dove aveva trascorso l’infanzia e noi oltre il ponte, nel paese natale di mia moglie Terry. Spesso ci incontravamo in campagna, dove si entusiasmava per i prodotti spontanei della natura. Una volta ci propose una serata in Val Tidone per uno spuntino in un locale tipico; pensavamo si trattasse di pane e salame, invece il luogo era famoso per i suoi buonissimi tortelli; Gualtiero ne divorò un gran piatto (altro che sette!) e lì capii che la pasta gli piaceva molto!
«Da Altopalato Gualtiero faceva quello che non poteva proporre nel suo ristorante. Ad esempio lavorava sulla pasta secca, che in Bonvesin de la Riva non esisteva, non la metteva in carta, almeno agli inizi. Ma aveva intuito tutte le sue potenzialità».
A commento del grande successo di pubblico per le serate a lui dedicate, con il “sold out” ad ogni serata, Gualtiero mi chiese, in tono un poco corrucciato : “Ma come si spiega questa grande affluenza qui, alle mie serate, e il “quasi vuoto” nel mio locale? Eppure io sono sempre lo stesso, che ne dici?”. Io rispondevo che doveva aver pazienza, la gente sarebbe arrivata anche là; certo, ad Altopalato sembrava di stare in una grande casa mentre da lui, talvolta, pur con le splendide preparazioni, l’atmosfera appariva un po’ rarefatta e il pubblico, non abituato a quelle raffinatezze, doveva maturare e in effetti “maturò” solo col tempo. Da lì a poco, comunque, non si sarebbe trovato neanche uno strapuntino libero.
«Discutevamo spesso, io quando avevo una giornata libera andavo volentieri a parlare con lui, mi raccontava di come vedeva le cose; come una scultura, un quadro o una sinfonia potessero ispirare un piatto. Era per me straordinario avere una persona che si occupasse di cucina, ma così addentro alla musica, all’arte, alla pittura. Era un fatto che non mi era mai capitato, un salto di livello. Ho trovato un solo autore del passato che secondo me può fare il paio con Gualtiero, in tempi diversi, ed era un napoletano, Vincenzo Corrado, che ha scritto un libro fantastico, Il Cuoco Galante, dove c’è tutto lo scibile della cucina e della pasticceria. Io credo che se i cuochi fossero in grado di leggere bene tra le righe in quel trattato, che non è semplice, potrebbero far cucina nuova per un secolo».
Tornando ad Altopalato, nello stesso periodo, vorrei ricordare due capitoli: i “Lunedì dedicati al teatro” e i “Lunedì d’autore”.
Nel primo, giorno di riposo delle compagnie di passaggio a Milano, invitavamo i protagonisti delle pièces teatrali a una cena dedicata, durante la quale proponevamo piatti di alto livello qualitativo ma, in qualche modo, legati al soggetto teatrale. A titolo esemplificativo, cito l’occasione con Giorgio Albertazzi che, al Manzoni, recitava nell’Enrico IV di Pirandello. La cena fu ottima e lui era visibilmente soddisfatto e, a sorpresa, recitò alcuni applauditissimi pezzi del suo repertorio.
Per i “Lunedì d’autore” Marchesi fu molto attivo nel contattare e invitare a esibirsi ad Altopalato i più interessanti protagonisti della cucina italiana di quel periodo. Ne passarono molti; realizzavano menu rappresentativi del loro repertorio, una formula mai sperimentata prima di allora, in un contesto originale che portò loro ottimi risultati poiché gli ospiti delle diverse serate diventarono spesso loro clienti con evidente reciproca soddisfazione.
Solo per citarne alcuni, ecco un piccolo elenco:
- Franco Colombani, Il Sole di Maleo (Lo)
- Andreas Hellrigl, Villa Mozart di Merano (Bz)
- Ezio Santin, Antica Osteria del Ponte di Cassinetta di Lugagnano (Mi)
- Famiglia Ferrari, Il Bersagliere di Goito (Mn)
- Alain Chapel – Omonimo ristorante di Mionnay
- Famiglia Martini – Il Cigno di Mantova
- Famiglia Santini – Dal Pescatore di Canneto sull’Oglio
- Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri – Enoteca Pinchiorri di Firenze
- Famiglia Iaccarino – Don Alfonso 1890 di S. Agata Sui Due Golfi (Na)
«Altopalato gli rimase nel cuore fino alla fine. Una delle ultime volte che l’ho visto era al funerale di sua moglie, quindi sei mesi fa – poi ci siamo rivisti un’ultima volta da Daniel Canzian. Mi disse: “Io voglio tornare ad Altopalato, fammi tornare almeno una volta. Mi metto tranquillo a guardare, non dico niente”. Voleva rivivere qualcosa che per lui era stato molto importante».
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